Corrado, ti va di raccontarci i tuoi esordi sia personali che come Argine? Il tuo incontro con la musica e la tua percezione di questo mondo e delle persone attorno.
Ho iniziato a suonare la chitarra a 12 anni, ma la musica ho iniziato ad amarla presto perché nella mia famiglia mio padre e mio fratello, molto più grande di me, mi coinvolgevano in ascolti e concerti sin da piccolo, il primo con la musica classica, il secondo con il rock. Ero molto preso da questa cosa, inevitabilmente quindi ho scelto di dedicare la mia vita alla musica. Una scelta catartica che mi ha portato, appena tornai dal servizio di leva militare a diciotto anni a formare gli Argine. Quando sei ragazzo è tutto entusiasmante, quando maturi ti confronti diversamente con le persone in ambito lavorativo: da un lato mal sopporti alcune cose, dall’altro hai più armi per gestirle al meglio.
«Mundana Humana Instrumentalis» è stato il vostro album d’esordio. Un disco dalle tante sfaccettature ed approcci. Si sente il cuore pulsante del post punk che vi accompagnerà in vari episodi della vostra carriera ma anche il preludio a quelle atmosfere incantate ed oniriche che racchiudono l’anima più profonda ed intimista degli Argine, penso ad un pezzo come «Come un servo da Mantice», «Solitudo» o «Martedì sera» uscita sulla compilation di Energeia.
«Mundana Humana Instrumentalis» è stato il frutto di anni di ricerca in cui ci incontravamo ogni giorno o quasi a casa di Marco Consorte per registrare con un otto piste gli spunti creativi di entrambi. Periodo incredibile in cui tutto era secondario rispetto al creare musica. Conservo ancora una quindicina di audiocassette in cui ci sono brani mai usciti su disco. Nell’album che hai citato ci sono i pezzi che ci sembravano più rappresentativi di quel momento. Suoni classici e postpunk fusi in un linguaggio molto personale che da un lato ci catapultò nel genere cosiddetto neofolk, dall’altro si fece notare quanto meno per la complessità e ricchezza timbrica, lontana da quell’approccio un po’ troppo minimalista di gran parte delle bands appartenenti al genere.
La foto nel retro del cd ritrae una primissima formazione degli Argine. Sembra dare l’idea che dietro la realizzazione dell’album ci sia stata una grande concertazione da parte di tanti elementi, una sorta di collettivo musicale. Quale è stata l’evoluzione degli Argine in questa direzione?
Hai visto bene. Come dicevo il nostro linguaggio musicale era ricco di sfumature, inevitabile perciò l’utilizzo di tanti strumenti diversi. Io e Marco creavamo le canzoni e gli arrangiamenti poi proponevamo il tutto ad altri musicisti che interpretavano al meglio e ci mettevano anche molto della propria arte trovando soluzioni alternative o abbracciando in pieno ciò che io e Marco avevamo scritto. Credo sia doveroso citare Alfredo Notarloberti, violinista membro del gruppo dal 1995 al 2017 e Alessio Sica, batterista e percussionista, ancora nella band. Anche con gli altri musicisti c’era qualcosa di magico. Amavamo passare molto tempo assieme. Ho cercato di mantenere il più possibile in vita il progetto di vedere il gruppo come una famiglia e avere tanti strumenti anche sul palco, ma è difficile suonare dal vivo quando si è in tanti in una band, sia logisticamente che economicamente. Così pian piano siamo ritornati ad essere il classico gruppo formato da quattro – cinque elementi. In studio invece ho sempre collaborato con tanti artisti in ogni disco, è una cosa che mi piace molto.
Gli anni tra «Mundana Humana Instrumentalis» e «Luctamina in Rebus» sono stati tra i più intensi ma anche i più proficui che portarono finalmente al riconoscimento da parte del grande pubblico del faticoso lavoro di quegli anni. Che ricordo hai di quegli anni?
Dopo l’album di debutto cambiò qualche elemento ma chi subentrò diede molto alla band, mi vengono in mente Ferruccio Milanesi e Carmen D’Onofrio, bassista e voce femminile. Si inserirono in un gruppo che, come dicevo, si era fatto notare dal pubblico e dalla stampa specializzata. Ricordo la prima telefonata di Tony Wakeford dei Sol Invictus mentre ero in salone ad ascoltare proprio il loro album «In the rain». Mi chiamò al telefono fisso perché tempi addietro gli diedi il nostro primo CD e dietro la copertina scrissi il mio numero di telefono. Fu entusiasta e voleva produrre il nostro secondo album che però aveva già un contratto e non se ne fece nulla. Nel 1998 ci fu la collaborazione con Federico Fiumani dei Diaframma. In quel periodo suonavamo proprio tanto e l’approccio era quello di un gruppo punk che viveva le esperienze del momento come se non dovesse esserci un domani. In quegli anni ebbi la fortuna di stringere delle amicizie importanti e durature, penso ai ragazzi della Camerata Mediolanense, agli Ataraxia. «Luctamina in rebus» credo sia considerato un album che ha fatto storia nel genere. Ancora oggi suoniamo diversi brani dal vivo di quel disco.
«Le Luci di Hessalden» segna un cambio di rotta rispetto agli album precedenti. Da cosa è stato dettato e come nasce questo album?
Nelle audiocassette di cui ti parlavo c’erano dei brani che ci piacevano tanto, molto punk e i suoni erano molto elettrici e non trovarono spazio nei primi due album che invece erano acustici, neoclassici. Decidemmo così di creare nuove canzoni con arrangiamenti più “energici” e “pulsanti” coerenti con i vecchi brani che volevamo inserire. Esperimento riuscito perché tra canzoni quali «I nostri occhi» e «Girotondo» ci sono dieci anni di differenza come scrittura, ma chi non lo sa non se ne accorge. C’era anche bisogno di un taglio con il passato proprio per poterlo preservare. Ripetersi avrebbe svilito ciò che avevamo fatto in precedenza. Era anche un periodo in cui ci furono molti “scazzi”, consentimi il termine, tra gli elementi del gruppo, Marco andò via, inoltre sentivamo che la dimensione di gruppo neofolk ci stava assai stretta. «Le luci di Hessdalen» diede quindi un taglio con un passato che però rispetto e custodisco e che fa parte di me ancora oggi. È anche vero che nell’album c’è qualche episodio dalle atmosfere che richiamano il sound dei dischi precedenti come «In silenzio», il cambiamento quindi non fu poi così netto. I testi avevano un carattere più immediato e le tematiche avevano un tono meno epico che in passato. Insomma «Le luci di Hessdalen» è il nostro disco rock in tutti i sensi.
«Umori di Autunno» dimostra un equilibrio e una maturità ormai raggiunta. Tra pop e folk intimista esprime al meglio la vostra anima interiore.
Si, credo sia l’album della maturità. Sono d’accordo con te. Quando scrissi i brani lo sentivo che stava venendo fuori qualcosa d’importante: il calibro poetico dei testi, ma anche quel badare all’essenziale negli arrangiamenti. «Novecento», «Umori d’autunno», «Risveglio», «Dicembre», «Blu luce», «Distesa», veramente non saprei quale sia il pezzo più rappresentativo. Un disco nel quale potevo raccontarmi, senza che il flusso creativo subisse alcuna contaminazione, né da persone del gruppo, né da aspettative legate al genere musicale.
32 anni di musica, palchi improvvisati, teatri, festival, migliaia di km macinati in macchina e tante sigarette. A distanza di così tanto tempo cosa è rimasto di quegli anni?
Certo negli anni fino al 2012 suonavamo tanto e i ricordi sono milioni e rappresentano un grande segmento del mio passato che mi ha fatto diventare ciò che sono oggi. Ricordo momenti fantastici e persone, tante, che non si risparmiavano per organizzare eventi meravigliosi. Viaggi in cui l’arrivo sul palco rappresentava il premio per l’impegno che veniva profuso. Ancora oggi abbiamo voglia di vivere queste emozioni. Abbiamo ripreso con i concerti e con la stessa voglia ed ambizione di prima, c’è qualche elemento nuovo: Cristina Patturelli alla voce femminile, Carlo Landolfi al basso. Ci siamo ancora.
In quegli anni uscirono diverse compilation, tutte in qualche modo infarcite di un tipo di protesta o dissenso di un certo livello. L’impegno politico e sociale in quegli anni era ancora alto e viveva la lunga scia della contestazione degli anni precedenti. Secondo te cosa è rimasto nella musica di oggi di quegli anni? Che fine hanno fatto i sogni e le rivoluzioni? Ma soprattutto perché oggi tanti protagonisti di quelle contestazioni, a volte radicali, sembrano essersi appiattiti sulla narrazione dominante?
Non so cosa sia cambiato. Noi abbiamo sempre messo in primo piano nella nostra arte un’anima incorrotta, un carattere intimista e un’estetica musicale legata anche alle nostre esperienze di studio (negli Argine molti musicisti che nel tempo ne hanno fatto parte venivano da studi di Conservatorio), ciò ha facilitato e arricchito il modo di descrivere le nostre emozioni. Molti in quegli anni seguivano le mode del momento, chi invece aveva qualcosa da dire sul serio lo sta facendo ancora oggi. Il tempo screma tante cose, rende chiaro ciò che in precedenza non lo era. Ogni periodo storico ha delle specificità a sé. Oggi più di prima sarebbe il caso di “rivoluzionare” una realtà stagnante e abbastanza deprimente, 2020 docet… La musica è però la nostra via e la nostra salvezza.
Un ricordo della Napoli in cui avete incominciato, un turbinio di musicisti e bands che esplosero di lì a poco e sapientemente poi pubblicati su Ark Records.
Il ricordo che più spesso mi viene in mente è il periodo in cui frequentavo il Centro Occupato di Cultura Autogestita “Tien a ment” che è stato il primo centro sociale occupato autogestito della città di Napoli, uno dei più importanti d’Italia negli anni ’90. In quel periodo conobbi Lucia Vitrone e i suoi Contropotere. Lucia collaborò con noi cantando in alcuni brani del primo album. Le sensazioni di quel periodo le porterò dentro per sempre. All’epoca venni in contatto con altri musicisti napoletani: Luigi Rubino (abitavamo a pochi passi di distanza, nello stesso quartiere), pianista e compositore, leader degli Ashram e ad oggi tastierista degli Argine; Davide Fusco dei Trees, poi altre band come Corde Oblique. Napoli negli anni ‘90 era probabilmente la città più dark d’Italia. Ark Records nella persona di Rossana Rossi ha scritto belle pagine in ambito di produzioni discografiche ed è ancora attiva.
Pathos! È il vostro ultimo album. Il titolo sembra essere una perentoria affermazione della necessità impellente di superare l’apatia che ci circonda. Per me costituisce la vetta più alta della vostra carriera.
Forse sì, è un album che racchiude le emozioni di un periodo molto particolare di grandi cambiamenti nella mia vita. Rappresenta un manifesto emozionale dove ogni traccia del disco descrive uno stato d’animo ben preciso. I suoni sono molto diversi da quelli dei precedenti dischi. C’è una batteria molto presente e si fondono suoni acustici e suoni elettronici. Sicuramente sia nei testi che nella musica quest’album è la rappresentazione di un’anima inquieta. Nel 2020 è uscito il singolo online «Infinito», esperimento del tutto elettronico, il cui testo contrappone l’infinito matematico a quello emozionale, i due concetti si incontrano alla fine del testo e diventano una cosa sola nella manifestazione dell’assenza.
Stiamo lavorando alla stesura dei nuovi brani e spero che in autunno prossimo possano esserci a tal proposito belle novità.
Ti ringrazio per questa chiacchierata.
Corrado Videtta
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