Simone Poletti è uno dei creativi più originali ed interessanti del panorama underground italiano: fotografo, grafico, cover artist, video maker ha collaborato con alcune delle realtà più importanti del panorama italiano come Disciplinatha, IANVA, Siegfried e naturalmente L’Amara. Fondatore di Dinamo Innesco Rivoluzione, questo é il suo racconto.
Il mio ingresso nel mondo de L’Amara è stato atipico, almeno rispetto alle abitudini consolidate in anni di collaborazione con Sigfried e con Giovanni Leo Leonardi. Ero abituato a partecipare alla genesi dei dischi dei Siegfried, concettualmente e anche per quel che riguarda una parte dei testi. Era affondato nel liquido amniotico della gestazione fin dal primo minuto: respiravo e vivevo le prime prove dei brani, le jam session che sono sempre state uno dei modi in cui un pezzo nasceva. Con L’amara cambiava tutto, potevo ascoltare i brani in anteprima, potevo parlare ore con Leo delle energie e del sangue che aveva generato quei pezzi, ma non ero coinvolto nella creazione, ero solo un interprete del pensiero altrui. Daltronde questo è il mestiere del Cover Artist e del grafico in generale e già avevo lavorato in questo modo con Disciplinatha e IANVA. All’inizio però l’ho vissuta come una mancanza, come un “distacco” emotivo che non mi permetteva di elaborare immagini mentali coerenti. Di solito costruisco l’immaginario visivo di un progetto in testa, molto prima di iniziare a fare la ricerca iconografica e di fare il primo schizzo a matita, questa volta avevo una lavagna bianca che non voleva riempirsi.
A quel punto ho capito che dovevo smetere di pensare a quel disco (il primo de L’Amara) come a un figlio non mio e dovevo ascoltare. Ascoltare le parole di un amico con il quale mi sono sempre capito al volo, uno di quei pochissimi che ti “finisce le frasi” e completa le tue idee mentre le stai raccontando. Ho ascoltato di nuovo L’Amara, come se stessi ascoltando Leo in una notte d’estate, sotto il portico di casa sua, davantio a un tavolo pieno di bottiglie vuote e il portacenere pieno. E ho sentito una storia diversa e piena.Una storia di amori traditi, di notti lunghissime e silenziose nel rumore assordante, di sangue, sudore vino e sperma.
E così è nata l’immagine per la copertina del primo disco. L’amore, le relazioni, sono una scatola chiusa con un buco al centro. Infili la mano e ti affidi completamente all’altro, senza sapere cosa succederà. Puoi trovare carezze e baci o una lama che ti taglia senza pietà. Così è quel disco dell’Amara. Tu lo metti sul piatto senza sapere che ti spezzerà il cuore e che ti taglierà a fettine, senza speranza di uscirne vivo. In quel periodo ero rimasto affascinato da una serie di immagini scattate da Eugenio Recuenco e fu naturale pensare al quadrato della copertina come l’interno di una scatola chiusa di cui solo l’ascoltatore, a suo rischio e pericolo, poteva scoprire il contenuto. Assumendosi però il rischio disubirne le estreme conseguenze. Così è la storia di due mani, una che si avventura con fiducia, cercando una stretta, il calore di una carezza o di un bacio e l’altra che attende nell’ombra, armata di dolore e tradimento. Ho scelto di non cogliere il momento del taglio, ma il secondo prima. Quegli attimi di felicità sospesa prima del dolore, quando ancora confidi nell’amore e magari inizi a far progetti per il futuro.
The Making of:
Dopo aver realizzato la cover del primo disco dell’Amara, si pose il (grosso) problema di realizzare un video-clip che avesse un senso con tutto l’impianto visuale: le scatole, le lame, le carte, il sangue…Ho la tendenza a rifiutare tutto ciò che non è filologicamente corretto, almeno nella mia testa, e quindi era necessario che rimanesse intatta l’iconografia, al contempo volevo sfruttare la potenza del video per rendere tutto ancora più aderente ai contenuti del disco. Il pezzo parla dell’amore impossibile fra il protagonista e la Puttana dell’Osteria di Rivabianca.
Ho iniziato a progettare un’osteria “in scatola”, che fosse abbastanza grande da ospitare Leo e gli strumenti, ma abbastanza piccola da rendere tutto angusto e surreale: un luogo metafisico, come le scatole della copertina, e al contempo tremendamente concreto. È stato davvero divertente costruire la mia Osteria di Rivabianca in 16:9, calcolando perfettamente le dimensioni e le distorsioni in base all’ottica utilizzate per le riprese. Nei “totali” l’inquadratura doveva essere completamente occupata dall’Osteria, nessuna parte doveva essere tagliata e, contemporaneamente, era necessario avere la possibilità di illuminare la scena nel modo giusto. A quel punto ho alzato le mani, perchè il video-making non è il mio mestiere, e ho chiesto aiuto a Roberta Bedocchi, Film maker di grande talento con cui collaboravo già per il mio lavoro “vero”. Con Roberta abbiamo progettato una sorta di script del video, preparando le inquadrature e defindo le luci da utilizzare. Di consegnuenza ho cotruito la scatola delle dimensioni giuste, con la possibilità di illuminarla con un piccolo lampadario da osteria, un buco per fare entrare le mani di Lucia (bravissima) che ha accarezzato e torturato Leo durante il racconto della nostra storia e tanti piccoli dettagli. Le immagini di Celine, Majakovskij e Jules Bonnot dovevano essere un sottotesto appena accennato, racontando un Pantheon di riferimenti ideali e attitudinali. Alla fine devo dire che ci siamo divertiti moltissimo a realizzare questo piccolo film a budget zero. Leo forse un po’ meno, ma è stato eroico: una giornata intera di riprese, chiuso in una scatola minuscola per ore, ripetendo lo stesso pezzo per decine di volte. Tendo ad essere piuttosto critico nei confronti del mio lavoro, ma nel caso del video de La Puttana faccio fatica a non considerarlo un piccolo gioiellino, che forse ha avuto meno riscontri di quanti avrebbe meritato.
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